La XXXVIII edizione del congresso “Conoscere e Curare il Cuore”, organizzata dalla Fondazione “Centro Lotta contro l’Infarto” dal 7 all’10 ottobre 2021 a Fortezza da Basso - Firenze, è la seconda, in “era di pandemia”, e la prima, dall’avvento della campagna vaccinale. Una edizione, questa del 2021, nella quale le evidenze dei dati, sempre più solide, saranno al centro del dibattito della cardiologia italiana che tanto si è battuta, da sempre, ma soprattutto in questo momento difficile, per “costruire salute” sulla base di strategie terapeutiche evidence based. Per questo, la Fondazione continua a centrare il proprio dibattito interno sull’innovazione ed interconnessione degli approcci, oltre che sulla personalizzazione delle cure, quale metodologia imprescindibile per garantire impatti positivi sulle strategie di salute pubblica. Da qui, temi del confronto di quest’anno.
Francesco Prati, Presidente Centro Lotta contro l’Infarto – Fondazione Onlus
Eloisa Arbustini, Centre for Inherited Cardiovascular Diseases – IRCCS, Foundation University Hospital Policlinico San Matteo, Pavia
Pierluigi Termporelli - Dirigente medico presso Istituti Clinici Scientifici Maugeri, IRCCS – Gattico - Veruno
Moderati dal giornalista Luciano Onder, hanno incontrato la stampa per comunicare i progressi in campo cardiologico .
Gli studi confermano che il declino cognitivo è una patologia sempre più connessa al cuore perché è stata dimostrata una correlazione evidente tra fattori di rischio cardiovascolari e declino cognitivo. Infatti, il numero di persone affette da demenza nel mondo è in progressivo aumento a causa della espansione della popolazione geriatrica, nella quale tale condizione clinica è più frequente e a causa dell’enorme diffusione dei fattori di rischio cardiovascolare nella popolazione generale. Le potenzialità dementigene dei fattori di rischio cardiovascolare iniziano a estrinsecarsi piuttosto precocemente, ragione per cui è fondamentale una loro pronta correzione prima che possano innescare ed amplificare i meccanismi fisiopatologici sottesi al declino cognitivo.
Prima, tra tutti i fattori di rischio, è l’ipertensione la cui presenza nell’età giovane-adulta si associa ad un aumentato rischio di demenza nell’età avanzata. Nella coorte di 1.440 individui di mezza età (media 55 anni) del Framingham Offspring, la presenza di una pressione sistolica >140 mnHg è risultata associata nel corso di un follow-up di 18 anni ad un aumento del 60% del rischio di demenza. La persistenza di elevata pressione anche nell’età avanzata (media 60 anni) è risultata associata ad un ulteriore incremento del rischio. Recentemente i risultati dello studio Systolic Blood Pressure Intervention Trial Memory and Cognition in Decreased Hypertension (SPRIN MIND) hanno fornito un nuovo e più vigoroso supporto all’ipotesi di una possibile prevenzione della demenza attraverso un efficace trattamento dell’ipertensione arteriosa, producendo la prima convincente dimostrazione dell’efficacia della terapia antipertensiva nel prevenire il declino cognitivo senile.
Anche il diabete mellito di tipo 2 è associato ad un significativo aumento del rischio di demenza. Una recente meta-analisi di 14 studi di coorte per un totale di 2.3 milioni di individui con diabete mellito di tipo 2, di cui 102.174 affetti anche da demenza, ha dimostrato un significativo rischio di demenza con una relazione diretta tra durata e severità della malattia e rischio di sviluppare demenza. Queste evidenze epidemiologiche trovano fondamento nella condivisione, da parte delle due entità morbose (diabete e demenza) di importanti determinanti fisiopatologici, quali la condizione di insulino-resistenza, l’aumentato stress ossidativo e la microinfiammazione cronica, tanto da spingere i ricercatori ad etichettare la malattia di Alzheimer come “diabete mellito di tipo 3”. Anche l’obesità è fattore di rischio del declino cognitivo. La relazione tra eccedenza ponderale e declino cognitivo è stata oggetto di una recente revisione di 19 studi longitudinali, per un totale di 589.649 individui di età compresa tra 35 e 65 anni, seguiti nel corso di un follow-up fino a 42 anni. I risultati dimostrano un aumentato rischio di demenza nei pazienti con obesità conclamata, ma non nei soggetti in sovrappeso. Di contro, una meta-analisi di 7 studi randomizzati controllati (468 partecipanti) e 13 studi longitudinali (551 partecipanti), su soggetti adulti (età media 50 anni) con eccedenza ponderale o franca obesità ma senza evidenza di demenza, ha dimostrato un significativo miglioramento dell’attenzione e della memoria nei soggetti con BMI >25 a seguito di un decremento ponderale di almeno 2 kg occorso in un intervallo temporale compreso tra 2 e 12 mesi.
Anche i fumatori sono esposti da un lato, ad un aumentato rischio di demenza e, dall’altro, ad una aumentata probabilità di morire prima dell’età in cui più frequentemente la demenza si sviluppa, aspetto quest’ultimo che inevitabilmente rappresenta un bias interpretativo della relazione tra fumo e rischio di demenza. Uno studio di coorte, recentemente pubblicato, che ha incluso 46.140 uomini con età >60 anni, ha dimostrato un ridotto rischio di demenza nei soggetti che non avevano mai fumato e in quelli che avevano smesso di fumare da almeno 4 anni rispetto a quelli che avevano continuato a fumare.
Inoltre, nel corso degli ultimi anni un crescente interesse è stato rivolto dalla letteratura scientifica all’ipotesi che i disturbi del sonno possano condizionare un aumentato rischio di sviluppare sia eventi cardiovascolari che demenza. Due meta-analisi recentemente pubblicate hanno fornito la medesima dimostrazione di un significativo incremento del rischio di demenza nei pazienti che presentavano disturbi del sonno in generale (durata del sonno breve o lunga, qualità del sonno scadenze, alterazioni del ritmo circadiano, insonnia, sindrome delle apnee ostruttive). Questi disturbi del sonno sono risultati associati ad un aumentato rischio di demenza in generale e di malattia di Alzheimer. La relazione tra durata del sonno e rischio di declino cognitivo sembra avere un andamento ad U con un aumentato rischio di demenza in generale e di malattia di Alzheimer per una durata del sonno <5 ore.
“La dimensione del rischio cardiovascolare” - commenta Francesco Prati, Presidente della Fondazione Centro per la Lotta contro l’Infarto – ha prodotto, grazie all’avanzare della ricerca, scenari e strumenti di valutazione di ultima generazione che hanno messo in correlazione, in modo sempre più evidente, il rischio genetico cardiovascolare e l’aterosclerosi. Negli ultimi anni, infatti, la genetica si è proposta come soluzione più precisa nel definire il rischio di sviluppare aterosclerosi od eventi infartuali. Si è insistito sulla ricerca di portatori di rare mutazioni monogeniche, che comportavano un rischio di gran lunga aumentato di sviluppare malattia coronarica. Tuttavia il rischio di sviluppare una malattia cardiovascolare va considerato poligenico e va pertanto messo in relazione a più mutazioni del genoma, che insieme possono identificare una fetta della popolazione a rischio di eventi cardiaci. A partire dal 2007, sono stati individuati oltre 50 loci tra di loro indipendenti che si associavano alla possibilità di sviluppare malattia coronarica. Questi alleli, quando aggregati in uno score del rischio poligenico, sono in grado di predire la presenza di aterosclerosi e conseguentemente la possibilità che si verifichino eventi coronarici. Il rischio poligenico per l’identificazione della malattia coronarica è ora una realtà. Recenti studi hanno quantificato il rischio poligenico in oltre 50.000 soggetti. Il rischio di sviluppare eventi cardiovascolari aumentava del 91% nei soggetti che appartenevano al quintile più alto, rispetto a coloro che facevano parte del quintile più basso. Lo stile di vita aveva tuttavia un ruolo importante, essendo in grado di modificare il rischio genetico. Ad esempio nel sottogruppo con il rischio genetico più alto, uno stile di vita corretto si associava a una riduzione del rischio relativo di eventi coronarici del 46%.
La componente genetica dell’infarto può essere ricondotta a due tipologie: monogenica e poligenica. Sono noti geni come il APOB, LDLR, PCSK9, che, in presenza di mutazioni patogenetiche, sono responsabili di alterazioni nel metabolismo del colesterolo LDL, causando ipercolesterolemia familiare. Queste mutazioni possono essere identificate grazie al sequenziamento con tecnologia Next Generation Sequencing (NGS) e ad analisi bioinformatiche, la cui patogenicità viene poi confermata dal genetista. Individuare portatori di mutazioni patogenetiche nei geni causanti ipercolesterolemia familiare è fondamentale, poiché questi pazienti presentano un rischio di sviluppare infarto circa tre volte superiore rispetto ai non portatori. Esiste però anche un'altra modalità di ereditare per via genetica la condizione di ipercolesterolemia familiare, quella poligenica, in cui non si riscontrano mutazioni (i.e. errori nel codice genetico che causano un'alterazione della proteina codificata) ma un aumento di alleli di variazioni comuni, chiamati polimorfismi. I polimorfismi sono delle variazioni che non causano un’alterazione del gene, ognuna con un piccolo effetto sul rischio: quando invece queste variazioni si sommano, conferiscono un significativo aumento del rischio genetico di sviluppare il fenotipo con patologia. Si sono messi a punto polimorfismi per la presenza di aterosclerosi coronarica (score poligenico per coronaropatia) che sono in grado di amplificare il rischio legato alla colesterolemia LDL. Questo comporta che persone con livelli di LDL considerati moderatamente preoccupanti (e.g. 130-160 mg/dL) abbiano in realtà lo stesso rischio di chi ha una marcata ipercolesterolemia (LDL > 190 mg/dL). Lo score poligenico non è correlato con nessun altro fattore di rischio, come per esempio ipertensione o altri lipidi, essendo stato sviluppato per evidenziare l’aterosclerosi. Gli score poligenici chiamati in inglese Polygenic Risk Score (PRS) possono essere composti anche da milioni di variazioni genetiche localizzate in regioni del genoma codificanti e intergeniche, essendo quindi coinvolte anche nella trascrizione genica. Lo sviluppo di nuovi PRS per le coronaropatie ha avuto una grandissima accelerazione negli ultimi tre anni, grazie all'utilizzo di dataset genomici prospettici per effettuare validazioni cliniche su larga scala. Il PRS ha grande utilità quando inserito all’interno di una stima del rischio assoluto, in quanto rende possibile, attraverso la stima della componente genetica dell’infarto, riclassificare individui da rischio intermedio medio a rischio alto.
“Una ragionevole alternativa alla stima del rischio poligenico per lo sviluppo dell’aterosclerosi consiste nell’impiego di tecniche di imaging non invasivo per valutarne la presenza. E’ oggi possibile - continua Francesco Prati - cercare l’aterosclerosi attraverso tecniche di imaging nel distretto arterioso femorale, carotideo o coronarico. Secondo i ricercatori dello studio PESA, la ricerca dell’aterosclerosi sub clinica andrebbe effettuata preferibilmente nel distretto femorale, che è più facilmente interessato dall’aterosclerosi.
Focalizzando l'attenzione nei soggetti con età compresa tra i 50 ed i 54 anni, quella in cui abitualmente viene suggerita un’iniziale visita cardiologica di prevenzione primaria, la percentuale di aterosclerosi nei distretti carotidei, iliaco femorale e coronarico erano, nel sesso maschile, rispettivamente del 48% 72% e 43%. E’di grande impatto l’osservazione che, superati i 50 anni, oltre 7 soggetti su 10, abbiano aterosclerosi iliaco femorale. Rimane tuttavia la tendenza alla ricerca dell’aterosclerosi in distretti che potremmo definire più nobili (cervello e cuore) utilizzando l’ultrasonografia delle carotidi o il calcium score coronarico. Il calcium core è una metodica ben validata, poco esposta ad una soggettività interpretativa ed in grado di stratificare il rischio di eventi cardiovascolari, come dimostrato da più studi clinici”.
La ricerca scientifica ha dimostrato che se, da una parte, i miglioramenti conseguiti negli ultimi decenni, nella diagnosi precoce e nel trattamento farmacologico del cancro, hanno determinato un netto aumento della sopravvivenza, tuttavia, dall’altra, questo miglioramento nell’aspettativa di vita dei pazienti affetti da cancro, si accompagna ad un aumento del rischio di sviluppare effetti collaterali, anche a lungo termine, indotti dalla chemioterapia. La cardiotossicità indotta dai trattamenti antitumorali è una complicanza comune a molte terapie antineoplastiche e una causa frequente di morbilità e mortalità nei sopravvissuti al cancro. Le antracicline hanno rappresentato negli ultimi 5 decenni e rappresentano tutt’oggi la terapia chiave nel trattamento dei tumori della mammella e dei tumori ematologici. Tuttavia, il beneficio in sopravvivenza è limitato dalla cardiotossicità che viene definita dall’American Society of Echocardiography come una riduzione del 10% della frazione di Eiezione Ventricolare Sinistra (FE) <53%. La cardiotossicità da antracicline è stata rilevata nel 98% dei casi, entro il primo anno dopo il completamento del trattamento. Le attuali strategie cliniche di gestione della tossicità da antracicline si concentrano sul rilevamento tempestivo del danno subclinico attraverso tecniche di imaging cardiaco e biomarcatori. Tuttavia, questi interventi sono focalizzati sul controllo del danno piuttosto che su un vero approccio preventivo. Sfortunatamente, nonostante decenni di sforzi per migliorare le strategie di prevenzione primaria, non esiste ancora una terapia farmacologica soddisfacente per evitare questa complicanza. In ambito prettamente cardiologico, le strategie di prevenzione primaria si sono rivolte principalmente all’uso di ace inibitori, sartani e beta bloccanti. In tale contesto, appare fondamentale, da una parte, la valutazione del rischio cardiovascolare basale dei pazienti oncologici mediante costruzione di score dedicati che consentano di identificare tempestivamente quelli ad aumentato rischio di complicanze - garantendo un approccio personalizzato, dall’altra, la messa a punto di nuove strategie che consentano un’identificazione precoce dei pazienti che possono beneficiare delle terapie cardioprotettive.
L’edizione del 2021 sarà l’occasione per mettere in discussione i tradizionali “falsi miti” della cardiologia. Infatti, un tema ampiamente dibattuto dalla comunità cardiologica, da sempre, è quello della non opportunità dell’angioplastica primaria tardiva (oltre le 12 ore). Infatti, mentre l’ipotesi dell’arteria aperta “precocemente” è stata da sempre confermata, quella dell’arteria aperta “tardiva” (cioè, la riperfusione di un’arteria occlusa correlata all’infarto in un momento troppo tardivo per il salvataggio miocardico e in pazienti senza sintomi in atto) è rimasta controversa per anni. Questo perché, il meccanismo con cui le cellule del miocardio sfuggono alla morte irreversibile, nonostante ore di ridotto apporto di ossigeno, non è stato completamente chiarito. Diverse, infatti, sono le variabili che potrebbero entrare in gioco: la possibile formazione di una circolazione collaterale come meccanismo per preservare la vitalità miocardica e la dinamicità dell’evoluzione dell’infarto miocardico acuto, da intendersi come instabilità della placca all’interno di un processo dinamico e non facilmente riconducibile ad una precisa ristretta finestra temporale. La possibilità che possa essere ottenuto un salvataggio miocardico anche nei pazienti che si presentano tardivamente trattati con PCI è stata valutata in diversi studi. Busk et al. hanno analizzato i risultati della tomografia computerizzata a emissione di fotone singolo eseguita in 396 pazienti con STEMI ed è stato osservato un salvataggio sostanziale (>50% dell’area a rischio) nel 41% dei presentatori tardivi trattati con angioplastica primaria nonostante l’occlusione totale del vaso responsabile dell’infarto. Gierlotka at. hanno valutato 2.036 pazienti con STEMI che si sono presentati a 12-24 ore dall’insorgenza dei sintomi e hanno osservato che l’approccio invasivo (esecuzione dell’angioplastica coronarica a 12-24 ore dall’insorgenza dei sintomi) era significativamente associato a un miglioramento clinico a 12 mesi rispetto all’approccio conservativo (trattamento non invasivo o esecuzione di angiografia coronarica a >24 h dall’insorgenza dei sintomi), con un rischio relativo di 0.73. Questi risultati clinici sono stati ulteriormente supportati da studi meccanicistici e di registro che hanno utilizzato la risonanza magnetica cardiaca: mentre il salvataggio miocardico è risultato inferiore nei presentatori tardivi rispetto a quelli precoci, un sostanziale salvataggio miocardico era documentabile anche quando l’angioplastica viene eseguita fra le 12 e le 48 dall’insorgenza dei sintomi. Sulla base di questi studi, le Linee Guida Europee del 2017 raccomandano l’angioplastica primaria nei pazienti instabili che si presentano a 12-24 h dall’insorgenza dei sintomi e che mostrano segni di ischemia in atto e suggeriscono l’impiego dell’angioplastica primaria di routine per pazienti STEMI stabili che si presentano da 12 a 48 h dall’insorgenza dei sintomi.
Tra i falsi miti, annoveriamo anche quello relativo all’attività fisica: è vero che fa sempre bene? L'attività fisica regolare è un noto fattore protettivo per la prevenzione delle malattie non trasmissibili come le malattie cardiovascolari, il diabete di tipo 2, il cancro al seno e al colon, oltre a produrre benefici per la salute mentale, ritardare l'insorgenza della demenza e contribuire al mantenimento di un adeguato peso corporeo ed al benessere generale. Le attuali linee guida di fatto raccomandano l'attività fisica in qualsiasi forma e non distinguono tra i diversi ambiti, ad es. attività fisica svolta durante il tempo libero, domestico o lavorativo. Nuove evidenze suggeriscono, infatti, un contrasto tra gli effetti sulla salute della attività fisica nel tempo libero rispetto a quella in ambito lavorativo. In particolare, mentre una attività fisica anche di elevata intensità nel tempo libero è stata associata a risultati positivi sulla salute, per l’attività fisica in ambito lavorativo sono state documentate conseguenze sfavorevoli sia per quanto riguarda le malattie cardiovascolari, le assenze per malattia in generale e la mortalità da tutte le cause. Questi effetti contrastanti dell’attività fisica nel tempo libero rispetto a quella in ambito lavorativo costituiscono il cosiddetto “paradosso dell’attività fisica” che fino a pochi anni fa era stato solo marginalmente considerato. Recentemente, il rischio di eventi cardiovascolari maggiori (MACE) e di mortalità da tutte le cause in rapporto alla attività fisica lavorativa o nel tempo libero è stato indagato nel Copenaghen General Population Study, un ampio studio contemporaneo su 104.046 maschi e femmine con valutazione basale nel 2003-2004 e successivo follow-up medio di 10 anni. Mentre per l’attività fisica nel tempo libero è stata confermata una relazione inversa con MACE e mortalità da tutte le cause, un incremento di MACE e mortalità è stato invece trovato in rapporto al livello crescente di attività fisica in ambito lavorativo da lieve a moderato a intenso. Recenti studi epidemiologici documenterebbero quindi che una attività fisica lavorativa intensa aumenta il rischio di malattie cardiovascolari e la mortalità. Tra le ipotesi formulate, innanzitutto: l’attività fisica lavorativa è spesso fatta di sforzi ripetitivi di resistenza di brevi periodi mentre quella durante il tempo libero è solitamente aerobica, più adatta a migliorare la forma fisica e la salute cardiovascolare. Di conseguenza l’attività fisica lavorativa aumenta e non riduce la frequenza cardiaca e la frequenza cardiaca elevata è un noto fattore di rischio cardiovascolare. Anche la pressione arteriosa può essere aumentata da sforzi continui quali sollevamento pesi o posture statiche, con conseguenti sfavorevoli ripercussioni. Inoltre, l’attività lavorativa, rispetto a quella ricreativa, è eseguita con più brevi periodi di recupero e spesso senza adeguato controllo delle condizioni lavorative. Va ricordato che a livello globale, circa il 50% della forza lavorativa opera all’esterno senza sufficiente attenzione alle condizioni climatiche, alla idratazione, alle pause ristoratrici con conseguente stress calorico, cosa che non avviene durante l’attività fisica ricreativa. Anche i turni lavorativi notturni e fattori ambientali quali rumore e inquinamento atmosferico potrebbero influire. Infine, ma non da ultimo, l’attività lavorativa intensa aumenta i livelli di infiammazione (es. proteina C reattiva) che rimangono elevati senza adeguati tempi di riposo per cui l’organismo non ha tempo per recuperare.
E’ indubbio che l’alta tecnologia abbia portato un contributo fondamentale allo sviluppo di pratiche cliniche sempre più innovative. Il pacemaker senza fili (wireless), ad esempio, ha fatto passi da gigante arrivando, dall’elettrostimolazione alla sincronizzazione. Infatti, l’introduzione dell’elettrostimolazione cardiaca transvenosa nella metà dello scorso secolo ha segnato uno dei principali progressi della medicina moderna, consentendo un miglioramento della qualità di vita e, in molti casi, una riduzione della mortalità dei pazienti affetti da bradiaritmie. Nel corso degli anni, la tecnologia è evoluta significativamente, consentendo l’impianto di dispositivi atti alla prevenzione della morte improvvisa (defibrillatori) ed alla cura dello scompenso (resincronizzazione, CRT), ma ciò nonostante tale terapia rimane ancora associata ad un rischio significativo di complicanze, fondamentalmente legate alla presenza degli elettrocateteri e della tasca in cui si alloggia il dispositivo. Per superare tali complicanze, la ricerca tecnologica ha avviato una avanzata sperimentazione relativa ad una metodologia wireless di stimolazione endocardica del ventricolo sinistro mediante il sistema WISE-CRT. Tale sistema fornisce una stimolazione wireless trasmettendo energia acustica da un trasmettitore generatore di impulsi, impiantato sottocute, ad un elettrodo ricevitore, impiantato nella parete del ventricolo sinistro. Questo converte l’energia acustica in energia elettrica e la utilizza per il pacing. Tale tecnologia ha dimostrato sì un’efficacia importante - la procedura è riuscita in 13 dei 17 soggetti (76%) ed a 6 mesi tutti i 13 pazienti che erano stati impiantati erano vivi, ma 7 eventi avversi maggiori si sono verificati in 6 pazienti (35%). Per questo, è stato messo a punto un nuovo sistema che è stato testato nel SELECT-LV (Safety and performance of Electrodes implanted in the Left Ventricle) study: 35 dei 39 pazienti arruolati sono stati sottoposti alla procedura che è stata coronata da successo in 34 (94.4%). Non si è verificato nessun tamponamento cardiaco. Dopo 6 mesi il pacing biventricolare era ottenuto nel 93.9% dei pazienti e l’84.8% aveva presentato un miglioramento clinico. Poiché il tasso di complicanze, anche gravi, non è stato valutato trascurabile, per il momento la procedura è da limitare ai centri con maggiore expertise e avvalendosi sempre dello stand-by cardiochirurgico.
Fabrizio Del Bimbo
Nessun commento:
Posta un commento